Dell’inquietudine
“Il mio desiderio è fuggire. Fuggire da ciò che conosco, fuggire da ciò che è mio, fuggire da ciò che amo. Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù di non essere questo luogo. Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini e questi giorni. Voglio riposarmi, da estraneo, dalla mia organica simulazione. Voglio sentire il sonno che arriva come vita e non come riposo. Una capanna in riva al mare, perfino una grotta sul fianco rugoso di una montagna, mi può dare questo. Purtroppo soltanto la mia volontà non me lo può dare.” F. Pessoa, Il Libro dell’inquietudine di Bernardo Soares.
Questo significa essere inquieti: non avere quiete, non trovare un’oasi nella quale arrestare per qualche tempo l’incessante ricerca, significa accumulare l’energia pura che si genera. Significa essere felici solo durante l’arco temporale che intercorre tra il luogo che si è lasciato e quello verso il quale si è diretti. L’essere inquieta per me non è effetto o causa di insoddisfazione, non c’è correlazione. E’ sete, è fame, è desiderio, è necessità, è movimento pur in un’oggettiva staticità. La traduzione di questo sentire interiore in una sensazione fisica è quella specie di ‘nervoso alle gambe’ che le fa muovere di continuo. Si chiama Sindrome delle gambe senza riposo (Restless Legs Syndrome). Esiste forse una tale sindrome anche per la testa? Ma voglio essere sincera: amo questa mia inquietudine che è il motore propulsore della creatività e voglio immaginare il mio pensiero come un pensiero danzante. “Su mille dorsi ora danza, dorsi ondosi, ondose malizie, salme a chi crea danze nuove!” (F. Nietzsche). Danzare significa oltrepassarsi e la mia mente ondeggia in questa continua tensione e ricerca di andare oltre se stessa e ne subisce tutta la seduzione, il fascino.